Liberamente tratto da “Opinioni di un clown” di Heinrich Böll e “Giorni felici” di Samuel Beckett
regia e adattamento di Beatrice Meloncelli
con Gianluigi Pellegrino e Luna Pizzo
La realtà è troppo ricca, le sue linee portanti troppo complesse perché un unico riflettore possa illuminarla
Il lavoro si sostituisce all’interiorità
In scena due attori: un uomo e una donna, che non comunicano tra di loro, che non possono e non vogliono comunicare tra di loro. Il linguaggio, la parola non basta, ognuno è prigioniero nel proprio spazio, nel mondo che si è costruito, nel sogno-gabbia dell’umana esistenza. Un uomo seduto su un’alta struttura, vestito elegantemente con abito scuro parla della sua condizione di clown; una donna è ferma, immobile, un ampio drappo la circonda, è Winnie.
Due maschere in scena per svelare, la profonda e inevitabile solitudine dell’essere, l’incomunicabilità nonostante il linguaggio, la chiusura in un mondo per ognuno soggettivo e inaccessibile. Il dolore che accomuna tutti gli uomini, che compiono un comune cammino alla ricerca del senso della vita ma spesso, rimangono vittima della ripetizione di esperienze già vissute, condannate al ridicolo.
Un’atmosfera surreale apre all’illeggibilità. Una staticità desolante ma anche malinconica e lieve, con sfumature di leggerezza in un ambiente tragicomico e poetico. L’intreccio dei significanti dischiude ad un’oscillazione tra il piano drammatico e quello grottesco. Il gioco dell’esistenza, del rapporto uomo-donna in una continua ricerca e fuga, nel pericolo dell’equivoco; nell’essere in una società che tende ad annullare ma se individuate delle strategie permette la crescita dell’individuo. Un personaggio è nell’altro, l’uno commenta l’altro, eppure non si conoscono, neanche si vedono, sono situati in due punti diversi ma vicini.
La parola è gesto, la parola esprime l’assurdo che è reale, i silenzi trasformano la parola. L’opera è in divenire in un tempo che è passato e presente insieme, in un non-luogo, una stessa azione inizia più volte e sembra non debba concludersi mai.
“…Le parole mancano, ci sono delle volte in cui perfino loro mancano. Non è vero, Willie, che persino le parole mancano, a volte?
E che cosa si deve fare, allora, aspettando che tornino?…”“Eh sì, così poco da dire, così poco da fare, e una tale paura, certi giorni, di trovarsi… con delle ore davanti a sé, prima del campanello del sonno, e più niente da dire, più niente da fare, che i giorni passano, certi giorni passano, passano e vanno, senza che sia detto niente, o quasi, senza che sia fatto niente, o quasi.” (Samuel Beckett)